Faccio seguito ad una proposta apparsa sui giornali nei giorni scorsi, a firma di un esponente di Fano Futura, per dire che non mi sembra una buona idea pensare alla Fondazione Carifano come al soggetto che potrebbe acquistare la Caserma Paolini. Le ragioni sono diverse ma mi limito ad illustrare le due principali. La prima è che la fondazione deve tornare ad essere una “fondazione di erogazione” invece di gestire in proprio attività, tantomeno quelle immobiliari. La seconda è che l’acquisto di questo bene potrà essere deciso solo dopo averne individuato le funzioni ed il prezzo e dovrà essere necessariamente attuato da coloro (enti pubblici o privati) che la utilizzeranno.
Per illustrare meglio il primo punto, mi rifaccio ad una recente relazione di Giuseppe Guzzetti (presidente Fondazione Cariplo e dell’Associazione Fondazioni Bancarie Italiane). Egli richiama la natura delle fondazioni di origine bancaria che, per loro missione, devono dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale, aiutando, sostenendo e rafforzando i singoli individui ed i corpi intermedi a sviluppare i loro compiti.
Le fondazioni di origine bancaria hanno colmato la lacuna – tutta italiana – della mancanza di soggetti specializzati nell’erogazione di contributi. Questi soggetti non possono pensare di sostituirsi all’azione pubblica o a quella privata; possono tuttavia svolgere compiti che né lo Stato né il mercato sono in grado di svolgere, poiché la loro natura consente di agire con una flessibilità maggiore rispetto alla pubblica amministrazione e le libera dall’obbligo di trattare allo stesso modo tutti i soggetti che vi si rivolgono per ottenere contributi. Pertanto le fondazioni hanno maggiori possibilità di sperimentare nuove politiche e linee di azione e, in virtù del fatto che i loro interventi non devono generare rendimenti economici, possono adottare logiche di lungo periodo, puntando a progetti che mostrino una “redditività sociale differita” e cercando di affrontare in anticipo problemi ed aree di bisogno la cui rilevanza sociale si svelerà pienamente in futuro.
Guzzetti poi elenca alcuni criteri guida delle azioni delle fondazioni. Tra questi: 1) evitare di sostituirsi ad altri soggetti, specie nei casi in cui questi siano in grado di svolgere correttamente il proprio ruolo, (“replicare interventi che già le amministrazioni pubbliche e/o le imprese sono bene attrezzate a fare, non solo significherebbe creare inutili doppioni di attività ma, con tutta probabilità, comporterebbe una riduzione dell’efficacia e dell’efficienza dell’intervento di una fondazione”); 2) privilegiare il sostegno di attività innovative, ossia dando voce a quei progetti e a quelle organizzazioni capaci di rispondere alle esigenze della collettività evitando modelli tradizionali e desueti; 3) effettuare il sostegno a progetti ed organizzazioni che fanno della partecipazione di tutti gli attori interessati alla risoluzione di un problema, il cardine della propria azione.
Una fondazione dovrebbe presentarsi principalmente come luogo di elaborazione e di sperimentazione di risposte innovative a problemi rilevanti della collettività (non dimenticando che la sua vocazione principale resta quella del sostegno delle organizzazioni che sono espressione della società civile e del settore non-profit). Per svolgere questa funzione, il denaro è uno strumento necessario ma non sufficiente; servono capacità di lettura e di analisi della realtà, idee, attitudine al rischio ed alla sperimentazione, capacità di valutazione scientifica dei risultati. Servono dunque risorse umane (tra gli amministratori e nello staff) per creare grandi “imprese di cervelli” dedicate al benessere collettivo.
Non mi pare che oggi la Fondazione Carifano si muova esattamente con questo spirito. Mi sembra anzi troppo protesa ad investire nei “mattoni”. Non è di un’ulteriore attività immobiliare – di cui già la Fondazione si è resa ampiamente protagonista – quello di cui la città di Fano ha bisogno (peraltro sottrarrebbe per anni preziose risorse destinate a sostenere progetti sociali). Per cui trovo l’acquisto della Caserma Paolini del tutto fuori luogo.
Il secondo motivo è appunto il fatto che mi pare prematuro parlare di acquisizione di un bene senza sapere che funzioni potrà avere tale immobile ed il prezzo che ci chiederà il demanio (per valutare – fra l’altro – se il prezzo è congruo rispetto alla destinazione prevista). Il buon senso vuole che non si compri una cosa senza sapere cosa farci. Se un uso completamente pubblico è altamente improbabile (il Comune dovrebbe destinarvi ingentissime risorse senza poter più intervenire per molti anni in altri settori), un uso misto pubblico-privato è tutto da valutare. Da questo punto di vista mi aspetto che la Giunta voglia aprire quanto prima un tavolo di confronto con tutte le forze economiche e sociali di questa città per costruire insieme una soluzione condivisa e partecipata.
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