Don Lorenzo Milani (a quarant’anni dalla morte)

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Lorenzo Milani nasce a Firenze nel maggio 1923 da una famiglia dell’alta borghesia e di origini ebraiche. Ben presto la famiglia si trasferisce a Milano, dove egli consegue la maturità classica e coltiva l’interesse per la pittura iscrivendosi all’Accademia di Brera. Nel 1942 la famiglia ritorna a Firenze e qui, l’anno dopo, Lorenzo entra in Seminario. Nel 1947 viene ordinato prete e inviato come cappellano a San Donato di Cadenzano. A San Donato egli fonda una scuola popolare per giovani operai. Nel 1954 viene nominato priore di Sant’Andrea a Barbiana, nell’appennino toscano, ed anche qui fonda una scuola destinata ai ragazzi che avevano appena finito le elementari. Fra San Donato e Barbiana scrive le sue Esperienze pastorali, che esce nel 1958 e viene ritirato dal commercio su disposizione del Sant’Uffizio. Nel 1965 scrive invece una lettera aperta ai cappellani militari in difesa del diritto all’obiezione di coscienza, quell’obiezione di coscienza che i cappellani avevano definito «estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà» e che era allora illegale per l’ordinamento giuridico italiano coevo, tanto che don Lorenzo viene incriminato per apologia di reato; in assenza di don Milani colpito da una grave malattia, il processo si conclude in primo grado con l’assoluzione (febbraio 1966), mentre la sentenza d’appello, circa un anno dopo la morte di don Lorenzo, condanna la lettera (1968). Nel maggio 1967 esce Lettera a una professoressa, firmata dai ragazzi di Barbiana. Un mese dopo, il 26 giugno 1967, Lorenzo Milani muore.
L’opera di don Lorenzo Dilani si misura su un duplice versante: quello dell’impegno religioso e quello dell’impegno civile. Si tratta di due versanti che, dal profilo e dall’attività, di Milani escono assolutamente intrecciati e quasi indistinguibili. Il suo impegno religioso, infatti, è un impegno di pastorale e di evangelizzazione, ma con indiscutibili ricadute forti e dirette sul terreno civile e sociale: si pensi alla sua presa di posizione sull’obiezione di coscienza in polemica con i cappellani militari e alla sua affermazione sul diritto a “disobbedire” (il suo proclamare che, dopo il processo di Norimberga in cui i gerarchi nazisti avevano addotto come difesa il fatto di aver solo seguito il loro dovere di soldati obbedendo agli ordini, «l’obbedienza non è più una virtù»); si pensi al suo impegno di promozione sociale nel campo educativo-scolastico, ritenuto prioritario rispetto ad ogni opera di evangelizzazione. Scrive don Milani: «Cercasi un fine. […] Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come si vuole amare, se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte». La sua vocazione religiosa e la passione civile ed educativa sono un tutt’uno: in Esperienze pastorali mostra con grande efficacia come proprio l’inadeguatezza degli strumenti pastorali abitualmente seguiti renda necessario passare, anche nella evangelizzazione, agli strumenti tipici della «istruzione civile»; perciò si attira le critiche di “Civiltà Cattolica” che lo accusa di non curare l’educazione soprannaturale e di puntare a formare uomini più che cristiani.
Per alcuni di questi tratti don Milani è stato spesso associato alle posizioni della Sinistra cattolica prima e del ’68 poi: la scelta della chiesa dei poveri, il rifiuto dell’autorità, la democrazia educativa. In realtà, la sua figura e il suo pensiero segnano una certa distanza rispetto ad ogni tipo di ideologia stabilita. Così come la scuola di Barbiana resta legata ad un contesto tutto particolare difficilmente applicabile ad altri. Ha scritto Paolo Giuntella: «Don Milani morì un anno prima del ’68. Se fosse stato vivo, probabilmente avrebbe deluso i sessantottini che, a partire da Lettera a una professoressa, lo avevano eletto a mito. Negli stessi giorni, infatti, della famosa lettera-poesia di Pasolini ai poliziotti, uscì una durissima lettera di un “ragazzo di Barbiana” che, come Pasolini, accusava il movimento studentesco di essere la rivoluzione dei figli di papà». Don Milani è stato accusato anche di incitamento all’odio e alla lotta di classe. In realtà -ha osservato Mario Gozzini- «Milani educava alla cultura dell’obiezione, del saper dire no alla rassegnazione e al conformismo, educava alla cultura della responsabilità. Il che è, da Socrate in poi, il connotato del maestro vero, che fa crescere i suoi alunni, li rende uomini capaci di libertà, non burattini obbedienti tirati per i fili dal potere economico, politico, informativo». Certo, alcuni epigoni di don Milani si resero forse responsabili di qualche “cortocircuito”, in particolare nella scuola. Infatti -ancora con le parole di Gozzini- «la Lettera a una professoressa venne usata a sproposito non per combattere gli aspetti negativi della selezione scolastica, ma per sostenere indebitamente che non ci deve essere nessuna selezione, mentre Milani non pensò mai nulla di simile e si batté solo per offrire maggiori aiuti a chi disponeva di minori strumenti; venne usata per affermare che si potevano superare le disuguaglianze senza fatiche né sacrifici, in contrasto frontale con le fatiche e i sacrifici cui Milani sottoponeva se stesso e i suoi ragazzi».


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