Ricorrono quest’anno i trent’anni dalla morte (5 novembre 1977) di Giorgio La Pira. La Pira è nato in Sicilia nel 1904. Laureatosi in giurisprudenza, ottiene molto presto una cattedra universitaria di diritto romano a Firenze. Lo studio e la riflessione più che la politica sembrano essere la sua “vocazione”. Vive ospite nel convento domenicano di San Marco, in una dimensione quasi monastica. Ma le vicende della storia lo coinvolgono forse al di là delle sue stesse intenzioni. Il fascismo e l’alleanza con la Germania hitleriana lo provocano. Nella sua città d’adozione, Firenze, nel 1538 passa Hitler ed il cardinale Della Costa fa chiudere le porte dell’arcivescovado di fronte al passaggio di chi esibisce una croce che, dice il cardinale, «non è la croce di Cristo». In sintonia con Della Costa, La Pira dà vita alla rivista “Principi”: si tratta della programmatica dichiarazione di inconciliabilità fra i principi cristiani e le teorie dominanti del nazifascismo. Ricercato dalle autorità, trova rifugio prima presso amici fiorentini e poi a Roma. Quivi, all’Angelicum (l’istituto teologico domenicano), tiene alcuni lezioni raccolte in seguito nel volume Per un’architettura cristiana dello Stato. Dopo la guerra partecipa alla Costituente, cercando di trasferirvi alcuni dei suoi “principi”. Nel 1948 è nominato sottosegretario al Ministero del lavoro. Nel 1951 è eletto sindaco di Firenze, carica che ricopre sino al 1957 e poi dal 1961 al 1965. All’inizio del mandato compie un gesto simbolico: ripristina l’emblema di Cristo re (lo stesso adottato per Firenze dal frate domenicano Firolamo Savonarola quasi cinquecento anni prima). Ma, soprattutto, come sindaco fa di Firenze una sorta di laboratorio per la realizzazione dei principi costituzionali: i diritti della persona umana, il diritto al lavoro e alla casa, il ripudio della guerra. Di grande rilievo l’attività profusa in una sorta di diplomazia internazionale della pace: dal 1958 al 1964 promuove quattro Colloqui mediterranei di pace (importantissimo quello tra francesi e algerini); dal 1952 al 1956 Firenze è sede di cinque Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana, mentre nel 1955 ospita il primo Convegno dei sindaci delle capitali del mondo. Ed ancora, La Pira per la pace e la distensione internazionale viaggia instancabilmente: nel 1956 e 1957 va in Israele ed Egitto (ove incontra Abba Eban e Nasser); nel 1959 e nel 1963, rompendo la cortina di ferro, vola a Mosca per incontrare Krusciov al quale chiede di tagliare «il ramo secco dell’ateismo di Stato»; fra il 1963 e il 1965 funge da mediatore nella crisi vietnamita, incontrando Ho Ci-Minh. Si impegna per la valorizzazione del Terzo Mondo e degli Stati africani (invita a Firenze i presidente del Senegal. Leopold Senghor, leader cristiano animatore dei movimenti di liberazione dell’Africa). Istituisce i gemellaggi di Firenze con Kiev, Kioto, Fez, Reims. Ma restano memorabili anche i suoi interventi contro i licenziamenti nelle fabbriche fiorentine (Pignone, Galileo, Cure).
L’apertura ad Est gli guadagnò l’accusa di comunismo (Benedetto Croce lo definì un «comunista convertito»), così come l’intervento contro i licenziamenti a Firenze quella di statalismo (fu duramente criticato dal presidente di Confindustria, che lo accusava di avere una politica economica ispirata alla sola «carità»). Accuse del genere gli vennero anche da Luigi Sturzo. Indubbiamente, da Sturzo lo divideva un diverso giudizio sull’economia di mercato e sul capitalismo, rispetto ai quali Sturzo non vedeva alternative possibili. Tuttavia, quanto allo statalismo, in realtà La Pira nella Costituente si battè per il riconoscimento del primato della persona e della sua «destinazione divina» rispetto allo Stato; e le sue scelte in campo politico-economico erano tutt’altro che ingenue, bensì frutto dello studio di precise teorie economiche (Keynes, il new deal di Roosvelt, il piano Beveridge inglese). Quanto al comunismo, in realtà il suo maestro di pensiero era invece san Tommaso, letto attraverso la mediazione di Maritain. Come ha scritto V. Possenti, in Tommaso La Pira trovava una sintesi di metafisica, profezia e politica, lettura della persona e lettura della storia del mondo e dei popoli; da Tommaso ricavava l’idea di giustizia e la concezione di politica come «scienza civile», amministrazione della comunità naturale, promozione della «buona vita del popolo».
Allo stesso modo, il suo mostrare con forza e pubblicamente la propria fede cristiana, il suo riferirsi spesso a Dio, alla Madonna e ai santi anche nel discorso e nell’azione politica hanno fatto parlare di una specie di integralismo. In effetti, secondo un motivo classico della cultura cattolica intransigente cioè l’appello al medioevo cristiano, dal Medioevo e da ciò che il Medioevo «trascrisse sulla pietra delle sue cattedrali, nella sua pittura, nella sua scultura, nella sua poesia, nei suoi statuti» egli ricavava uno dei suoi princìpi cardine: cioè «che la società è fatta per la persona e che la persona è fatta per Iddio» (da una lezione tenuta a Roma nella primavera del 1944). Tuttavia «la sua esperienza di fede è sempre rispettosa dell’altro, aperta al dialogo, estranea a ogni forma di imposizione, la fede è la sua forza ma la religione non è mai strumento di potere, il suo punto di riferimento è il vangelo non la dottrina» (P. Scoppola). Così, durante i lavori della Costituente propone di inserire l’appello a Dio all’inizio del testo, ma ritira poi la proposta quando capisce che sarebbe stata causa di divisione.
Significativo anche il suo modo di intendere il ruolo di sindaco. «Il suo stile è molto più quello di un sindaco direttamente letto dal popolo che quello di un sindaco espresso dai partiti: per lui il sindaco prima di essere un amministratore è un capo spirituale che deve interpretare e esprimere la vocazione storica della città» (P. Scoppola). Lo dimostra nella scelta degli assessori: «a chi domandasse con quale criterio abbiamo fatto la Giunta, io rispondo che l’abbiamo fatta prescindendo dai singoli interessi, anche di partito, per il bene di Firenze e con criteri di onestà e competenza» (discorso in Consiglio comunale del 5 luglio 1951). Lo documenta lo scontro con il suo partito a livello nazionale e con la sua maggioranza in Comune fra il dicembre 1953 e il settembre 1954: «Signori consiglieri, si allude forse ai miei interventi per i licenziamenti e per gli sfratti? Ebbene, io ve lo dichiaro con fermezza fraterna ma decisa: voi avete nei miei confronti un solo diritto, quello di negarmi la fiducia. Ma non avete il diritto di dirmi: signor sindaco, non si interessi delle creature senza lavoro, senza casa, senza assistenza» (discorso in Consiglio comunale del 24 settembre 1954).
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