Due libri usciti per natale ripropongono, rivisitando il passato, un tema centrale per la politica della nostra città: il sistema del Welfare.
Il primo “il Cante di Montevecchio”, con il sottotitolo una storia di grande solidarietà, edito da Giorgio Fiacconi e realizzato dal Club Bazzani ripercorre le tappe di una Istituzione benefica nata per volontà di una famiglia nobile fanese: la Famiglia Montevecchio nello scorso novecento;
il secondo di Luciano Polverari invece affronta un altro aspetto della storia del sociale del novecento quello della mutualismo delle società di mutuo soccorso nel nostro territorio.
Il dibattito sul welfare di comunità non può e non deve prescindere da alcune riflessioni: la prima che nel novecento la società laica fanese si fece carico di destinare un patrimonio consistente per finalità altamente meritorie di salvaguardia dei cittadini in difficoltà soprattutto ragazze madri e bambini.
Questo grande patrimonio, soprattutto terriero , successivamente è stato ricondotto a istituzioni quali gli Enti Comunali di Assistenza, le IRAB (Istituti Riuniti di Assistenza e Beneficenza) e altre associazioni finalizzati a sostenere statutariamente attività sociali fino a che il sistema pubblico decise di inglobarlo nelle casse del Comune sciogliendo gli enti e portando in dote all’Ente Locale un valore consistente di terreni che nel tempo sono stati trasformati da agricoli a edificabili aumentando enormemente il valore del capitale complessivo.
Ma purtroppo la destinazione sociale si è persa per strada, tanto che queste risorse sono entrate in un contenitore pubblico indistinto che è servito per costruire strade, abbellire giardini, realizzare edifici ecc;
tutte necessità legittime ma poco attinenti con le finalità poste dai cittadini fanesi donatori all’utilizzo dei loro beni.
Nel momento che la nostra città vive difficoltà pesanti di inclusione sociale si può utilizzare questo patrimonio destinandolo ad investimenti per sostenere questi nuovi bisogni, per fare alcuni esempi: di strutture per anziani, per disabilità psichiche, per adolescenti in stato di difficoltà?
Non era questo lo spirito di chi ha donato il suo patrimonio alla città?
E’ legittimo chiedere che vengano rispettate le priorità di coloro che vollero vincolare le loro donazioni a situazioni di disagio che oggi vengono rappresentate diversamente ma con la stessa necessità di dare risposte a nuovi bisogni?
Mutualismo una parola vecchia, buona a raccontare la solidarietà tra gli operai del 900; invece la domanda di mtualismo ritorna, perché alcune domande sociali non possono trovare risposta nello Stato.
La nuova strategia del welfare-mix costringe a ripensare il rapporto fra società e Stato e quindi anche lo Stato sociale.
Nessuno Stato può oggi garantire l’universalismo del welfare,per due motivi il primo perché le risorse da destinare non possono essere sufficienti a rispondere a tutti i bisogni il secondo perché il bene comune per definizione non appartiene a nessuno, nemmeno allo Stato, così che lo possa distribuire.
In questo senso il nuovo welfare dovrà essere un mix tra welfare state e welfare community, e avere un po’ di Stato, un po’ di mercato e tanta “comunità”.
Quello che occorre è quindi un sistema misto, fortemente decentrato sul territorio, in cui il soggetto pubblico svolga l’indispensabile ruolo di indirizzo, regia e verifica a garanzia di tutti i cittadini, ma sappia valorizzare e mettere in rete le energie offerte dai privati .
L’oggetto del nuovo welfare non è solo il reddito; ci sono altri capitali che stanno diventando sempre più fondamentali quali la l’inclusione sociale, la partecipazione, le relazioni mirate all’incremento del benessere dei cittadini stessi.
Il dibattito sulla crisi del welfare non può prescindere quindi da queste riflessioni e soprattutto sul ruolo della responsabilità sociale d’impresa.
Risulta interessante quanto ha dichiarato Luigi Abete, Presidente dell’Unione Industriali di Roma, in un recente convegno: “l’impresa, dovrebbe organizzarsi e porsi obiettivi non solo come soggetto economico, ma come soggetto di comunità, perché della comunità può essere fulcro e motore propulsore”.
Abete ritiene che non si possa più separare il concetto di momento di sviluppo da quello di solidarietà, perché l’organizzazione stessa del lavoro all’interno dell’azienda diventa di per sé elemento sociale fondante: organizzazione significa maggiore produttività lì dove c’è un maggiore serenità del lavoratore.
Questi concetti bene li avevano capiti gli imprenditori degli anni 60 :
Olivetti e Marzotto per citarne tra i più attenti a queste politiche attive di welfare community.
Spesso ci si dimentica che in Italia gli ospedali, i servizi per l’infanzia, il sostegno alle famiglie non sono stati inventati dallo Stato; il primo asilo nido lo ha creato Adriano Olivetti ad Ivrea.
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